BERNARDO ANTONIO VITTONE

Nacque a Torino il 19 agosto 1704, nono e ultimo figlio di Giuseppe Nicolao, facoltoso commerciante di stoffe, originario di Cambiano, e dalla sua seconda moglie Francesca Maria Comune. Iniziò la carriera di architetto nello studio dello zio materno Giovanni Giacomo Girolamo Plantery. Il secondo maestro, come dichiarò lui stesso, fu Filippo Juvarra, del quale fu anche collaboratore in varie realizzazioni. Le sue prime opere di un certo impegno furono la chiesa parrocchiale di Pecetto Torinese e il palazzo municipale di Bra, entrambi eseguiti nel 1730, e la chiesa di Santa Maria Maddalena di Alba, del 1733. Forse spinto dallo zio, grazie ai buoni uffici di Juvarra e sostenuto economicamente dal Re, alla fine del 1730 partì per Roma, dove ebbe agio di studiare le opere antiche e quelle dei grandi maestri del Barocco, Bernini e Borromini. Nel maggio del 1732 vinse il primo premio nel Concorso Clementino indetto dall’Accademia di San Luca di Roma, della quale fu anche eletto membro effettivo. Tornato a Torino nell’aprile del 1733, dai padri Teatini ricevette l’incarico di curare l’edizione di Architettura Civile, il trattato di Guarino Guarini del quale nel 1686 erano state pubblicate solo le incisioni. Intanto si dedicava all’insegnamento dell’architettura civile e della matematica presso il Collegio delle Province, intercalando l’attività didattica con le prime progettazioni di rilievo, come il nuovo Collegio delle Province del capoluogo (1737), l’Ospizio di Carità di Carignano, il Ricovero dei Catecumeni a Pinerolo. Incontrò molto successo presso le famiglie nobili e borghesi, soprattutto di provincia, e presso gli ambienti ecclesiastici, parrocchie, confraternite e congregazioni religiose, che trovavano in lui la possibilità di realizzare, ad un prezzo contenuto, opere di piccola scala ma di grande originalità e bellezza, dove la preferenza per le linee curve alla Borromini era associata all’arditezza delle cupole del Guarini e all’architettura aperta di Juvarra. In tre decenni e mezzo Vittone disseminò per tutto il Piemonte un numero incredibile di opere: soprattutto chiese, ma anche edifici civili. Quanto alla committenza pubblica, egli ebbe un ruolo egemonico negli ambiti soggetti al Magistrato della Riforma, ad esempio l’Università, “… tanto – scrive Rita Biraghi – da poter essere assimilato a quello che, solo nell’Ottocento, diverrà istituzionalmente il ruolo di Architetto dell’Università”. Il che smentisce il giudizio espresso in passato secondo il quale Vittone sarebbe stato escluso dalla committenza pubblica a favore di Benedetto Alfieri. Pubblicò due trattati teorici di architettura: le “Istruzioni elementari per indirizzo dei giovani allo studio dell’architettura civile” (1760) e le “Istruzioni diverse concernenti l’ufficio dell’architettura civile” (1766). Nello suo studio si formarono, fra gli altri, Carlo Andrea Rana di Strambino, Pietro Bonvicini, Benedetto e Giovanni Battista Feroggio, Giovanni Battista Borra, Luigi Michele Barberis e, il più importante dei suoi allievi, il chierese Mario Ludovico Quarini. La morte lo colse a Torino il 19 ottobre 1770.


L’ARCHITETTURA DEL VITTONE

Bernardo Antonio Vittone è stato a lungo sottovalutato da una critica venata di ideologia che lo collocava fra gli autori secondari e provinciali, rimproverandogli l’impermeabilità ai dettami del Neoclassicismo e dell’Illuminismo e la fedeltà ad oltranza alle tradizioni barocca e cattolica. La sua riscoperta data al 1920, al volume di Eugenio Olivero “Le opere di Bernardo Antonio Vittone”: da allora gli sono stati dedicati studi, mostre e convegni, in Italia e all’estero. Oggi nessuno dubita più della sua grandezza e dell’originalità della sua arte.Il merito principale del Vittone è stato quello di aver saputo fondere in un linguaggio personale le lezioni dei suoi grandi maestri: l’architettura “aperta” di Juvarra, la luce”nascosta” del Bernini, la fantasia di Guarini, le linee curve del Borromini. Nelle sue costruzioni egli preferisce la pianta centrale: quasi tutte le sue realizzazioni religiose sono esagonali, ottagonali o a croce greca. La chiesa che lui costruisce consiste in un’ossatura di pilastri, archi e costoloni al cui interno può giocare a volontà nell’alternare pareti concave, convesse o piane. Una struttura “aperta”, che richiama da vicino quella dell’architettura gotica. Il suo interesse si concentra soprattutto sul tema “cupola”, che coniuga con sempre nuove variazioni. Nel periodo centrale del suo percorso artistico (gli anni 1740-1750), il suo linguaggio è un Barocco all’insegna del movimento, della fantasia, talvolta con intonazioni rococò, ma sempre moderato e senza cedimenti alla bizzarria. Le ricerche sul tema della luce lo portano, grazie alla lezione appresa dal Bernini e da Juvarra, a preferire la luce riflessa proveniente da fonti nascoste e all’alleggerimento, sempre in funzione della luce, delle parti murarie fino al punto di perforare prima, e poi di svuotare, i pennacchi della cupola, come nella cappella dell’Ospizio di Carità di Carignano. Le opere che vanno dal 1750 (chiesa di Santa Chiara di Torino) al 1770 (chiesa di Borgo d’Ale) rivelano un Vittone sensibile alle sollecitazioni del neoclassicismo che avanza. È attratto dalla ricerca di una maggiore semplicità e recupera la continuità della struttura muraria. Abbandona quasi totalmente il ricorso alla luce riflessa e sposa la luce incidente. Tuttavia, i suggerimenti classici che accoglie non oscurano, semmai arricchiscono di valenze nuove, il Barocco che resta il linguaggio a lui più congeniale.

 

CAPPELLA DELLA VISITAZIONE DELLA VERGINE MARIA A S. ELISABETTA AL VALINOTTO (1737-1739)
Costruita per il banchiere Antonio Facio fra il 1737 e il 1739, è una delle prime chiese costruite dal Vittone: un’opera ispirata allo stile di Guarino Guarini e al Borromini del Sant’Ivo alla Sapienza di Roma. Vista dall’esterno, la struttura è a tre volumi sovrapposi e digradanti, di pianta mistilinea nei due piani inferiori, poligonale nel terzo che racchiude la cupola. Vittone stesso, nelle Istruzioni Diverse, ne fa una compiaciuta descrizione: “Forma questa chiesa nell’esterno… due ordini, o piani… Nell’interno però la Cappella è ad un piano solo; che sormontato va da tre volte, l’una sovral’altra esistenti, tutte traforate, e aperte; così che luogo ha la vista di coloro che si trovano in Chiesa a spaziare per li vani che esistono tra esse, e godere in tal modo… la varietà delle Gerarchie, che gradatamente crescendo vi si rappresentano in esse volte, e fino alla sommità del Cupolino, ove espressa vedesi la santissima Triade”. Wittkower sottolinea soprattutto i simbolismi sottintesi nella complessa struttura: “La triplice volta, creazione architettonica senza precedenti, non può essere spiegata semplicemente come una fusione sperimentale di due tipi guarineschi di cupole… Causa, scopo ed essenza della soluzione vittoniana sono il significato uno e trino della triplice volta. Ossia Vittone volle la struttura fatta di tre volte perché queste simboleggiano il mistero della Trinità, che infatti appare dipinto sul cupolino della lanterna”. Nell’elegante altare di marmo bianco, giallo, verde e persichino, che l’Olivero giudica “di bon disegno” senza tuttavia sbilanciarsi nell’attribuirlo al Vittone, spiccano le quattro mensole a volute che fiancheggiano l’urna delle reliquie dalla forma singolare.

OSPIZIO DI CARITÀ (IST. FACIO-FRICHIERI) (1737- 1744)

Il banchiere Antonio Faccio, di Carignano, nel suo testamento destinò un consistente fondo per la costruzione, nella sua città, di un Ospizio di Carità. Il progetto fu eseguito attorno al 1737 da Bernardo Vittone. La sua realizzazione iniziò nel 1744 e terminò nel 1749. Prevedeva un complesso costituito da un corpo di servizio affacciato sulla via maestra con alle spalle, separato da un cortile, un secondo corpo longitudinale e tre ali ad esso perpendicolari, due alle estremità e una al centro: l’ala centrale, contenente la cappella e la cucina, separava due settori, uno destinato agli uomini e l’altro alle donne, ognuno dei quali si sviluppava con portici e loggiati attorno ad un cortile. Il pianterreno era riservato ai refettori e ai laboratori dove gli ospiti venivano iniziati a qualche mestiere; il piano superiore ai dormitori e agli altri servizi. In realtà furono realizzati soltanto i due corpi paralleli alla strada e, delle al perpendicolari ad essi, solo quella a destra e quella centrale. Nel 1933, per consentire l’allargamento della via pubblica, fu demolito il corpo che affacciava su di essa. Di conseguenza, a prospettare sulla via, con la sua elegante facciata in laterizio a vista, è rimasto il secondo corpo. La cappella, dedicata alla Beata Vergine della Purificazione, ne occupa la parte centrale. La sua facciata aggetta fortemente rispetto al resto. Un tamburo poligonale che incapsula la cupola si innalza al suo centro, costituendo una variante al progetto del Vittone, che aveva previsto una cupola libera alla vista. All’interno, questa si rivela tradizionale nella struttura ma originale nelle fonti di luce che vi si aprono. Quattro di esse sono normali finestre circolari. Quelle in corrispondenza dei pennacchi sono molto più profonde ed ampie e di forma oblunga, così da rompere la continuità della cornice alla base del tamburo e da estendersi perfino ai pennacchi: una trovata originale, che apre maggiori varchi alla luce, e alla quale Vittone ricorre qui per la prima volta.